venerdì 16 novembre 2012

AVVENIRE - Agorà. Italiano da cafoni? Parlare meglio si può


intervista. Nel nostro modo di esprimerci, dobbiamo affidarci a un vocabolario più
ampio. Parla Edoardo Lombardi Vallauri

DI GIACOMOGAMBASSI
Parla come mangi. Forse in troppi hanno preso alla lettera questo adagio, soprattutto
se la tavola è imbandita con cibi preparati in stile fast food, senza alcuna eleganza e assemblando a caso quel che c’è nel frigorifero.
Ecco, l’italiano che parliamo è un po’ così: un italiano «un tanto al chilo», prigioniero della sciatteria, del pressappochismo, della confusione terminologica, della sintassi
rivista (e non corretta), delle frasi fatte, del burocratese elevato a strategia per alzare il tono del discorso.
Insomma una lingua storpiata e al ribasso che si impone quasi fosse la regola. Come racconta Edoardo Lombardi Vallauri nel libro Parlare l’italiano. Come usare meglio la nostra
lingua (Mulino, 230 pagine, 13 euro). «Molti si affidano a un italiano peggiore di quello che converrebbe
– spiega il docente di linguistica
all’Università Roma Tre –. Perché
non possiedono un ampio vocabolario.
Oppure perché non sono
consapevoli delle sottigliezze
che l’italiano presenta. O ancora
perché non si rendono conto che
servono registri diversi a seconda
della situazioni».
È un bestiario linguistico quello
con cui conviviamo. Basta mettersi
in ascolto di qualche nostra conversazione
o delle voci che escono
da radio e tv. L’aeroplano si trasforma
immancabilmente in areoplano.
L’altoparlante diventa autoparlante,
ossia qualcosa che autoproduce
suoni e non che li amplifica.
Solo lapsus? Macché. «Siamo di
fronte a una diffusa mancanza di
padronanza lessicale – afferma il
docente –. È la conseguenza della
cultura di massa. Allargando la base
è diminuito lo spessore. Se accendo
il televisore, ad esempio,
comprendo che fra i criteri del bravo
presentatore non figura la proprietà
di linguaggio».
Non va meglio nelle aziende dove
il manager è avvezzo a sostenere
che la sua segretaria impiega «anni
luce a battere una lettera». «Ma l’espressione
indica una distanza
spaziale e non di durata temporale
», spiega Lombardi Vallauri. E un
tecnico ama far sapere che il computer
«è troppo lento grazie
a taskeng.exe». «L’esperto
ha sentito frasi come
"il Paese si risolleverà
grazie a una politica saggia"
e ne ha dedotto che
questa espressione significa
a causa di. Ma non si è
accorto che essa veicola
sempre una connotazione
positiva».
Piace anche il piuttosto che ma con
un’accezione del tutto impropria.
«Non so se comprare le carote,
piuttosto che le zucchine», si chiede
una signora al mercato. «Il suo
significato originario e corretto è
meglio di. Dovrei affermare: "Mi
domando se sia meglio fare una
cosa piuttosto che un’altra". Ma
chi si lascia permeare passivamente
da ciò che ascolta ha interpretato
il piuttosto che come una disgiunzione,
al pari di oppure».
Poi ci sono i «comportamenti linguistici
di moda», secondo la definizione
di Lombardi Vallauri. Ormai
è ordinario «aspettare un attimino
» ma serve anche «un attimino
di buona educazione». Autentici
passepartout sono al limite e a
livello di. Peccato che al limite sia
stato ridotto a sinonimo di forse
(capita di dire «vieni a trovarmi? Al
limite andiamo al cinema»). E a livello
di ha perso ogni contatto con
le dimensioni della realtà ed è pas-
P
sato al senso generico di riguardo
a («a livello di computer sono analfabeta
»). «Con queste espressioni
mi comporterei come con gli abiti
alla moda – chiarisce il linguista –.
Quando una tendenza è troppo
diffusa, si rischia di apparire coatti.
E, siccome il parlare è una manifestazione
diretta dell’intelligenza,
sembrare imitativi o conformisti
dà un’immagine negativa di sé».
Altra tendenza è quella della «libidine
del suffisso». Conquista dire
doti oratoriali anche se è già disponibile
l’aggettivo oratorie. Oppure
viene considerato ricercato riferirsi
all’alta sartorialità quando basterebbe
adoperare sartoria. «Ritengo
che siano tecniche per nascondere
la pochezza del contenuto», sentenzia
Lombardi Vallauri. Persino il
gergo dei burocrati fa proseliti. «Si
assiste alla debordante invadenza
della d eufonica», dichiara il docente.
Incanta parlare di «io ed Anna
»; però la d è richiesta quando ci
sono due vocali identiche (come in
«io ed Emma»). Altrettanto trendy
è scrivere sull’insegna del negozio
pizza da asporto, «com’è indicato
nei moduli firmati dal proprietario
per la licenza», ironizza il linguista.
Anche la sintassi fa acqua. Lo dimostra
il rapporto col congiuntivo.
Invece di dire «credo che sia opportuno
», è prassi ripetere «credo
che è opportuno». «Il parlato ha
sdoganato l’indicativo in quasi tutte
le posizioni del congiuntivo –
spiega il docente –. Se questa deriva
appare inarrestabile e può essere
accettabile, tutto cambia con la
scrittura».
Occhio ai vocaboli stranieri. «Il
programma musicale è un purpurrì
», annuncia lo speaker. «Ma la
parola francese che significa miscuglio
si scrive pot-pourri e si pronuncia
popurì». Anche lo stage, inteso
come periodo di formazione,
nasconde trappole. «Deve essere
letto stasg e non all’inglese steig
che vuol dire palcoscenico o stadio
di sviluppo». E’ il vezzo (d’ignoranza)
di seguire la dizione anglosassone
anche per i vocaboli che non
hanno quella matrice. Così in facoltà
la locuzione latina stare decisis
– che riassume il principio giuridico
del precedente vincolante
per il magistrato – diventa stear desaisis
oppure il filosofo tedesco Immanuel
Kant (che si pronuncia
Cant) è equiparato a Chènt, il timido
reporter che veste i panni di Superman.
«Anche chi non ha studiato
l’inglese – riferisce Lombardi
Vallauri – finisce per orecchiarlo.
Ma è necessario stare attenti al suo
utilizzo».
Allora come evitare le rozzezze verbali?
«Prima di tutto vanno compresi
gli errori. Poi è fondamentale
esporsi alla lingua usata nei suoi
modi migliori. E, dal momento che
è difficile imbattersi in un italiano
orale preciso, meglio confidare
nelle buone letture che senz’altro
contribuiscono a riparare il nostro
parlato».
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Nessun commento:

Posta un commento